L’Associazione Sportiva Tennistavolo Valdarno nasce il 10 dicembre 1971 con il nome di “Gruppo Sportivo Biancazzurro” e la sua attività è partita assieme al “GS Alberto Galli”. Viene fondata a San Giovanni Valdarno da Vivaldo Nannoni, con la collaborazione iniziale di Gino Mori, Guido Bucci e Silvio Peri. Subito però iniziano le difficoltà, in particolare manca lo spazio per gli allenamenti che viene offerto da Don Marino, allora Parroco a Ponte alle Forche.
Si arriva così al 1978 con un gruppo di 15 Giovanissimi che piano piano cominciano ad ottenere buoni risultati ed a comparire nelle classifiche regionali. Così l’Amministrazione Comunale di San Giovanni Valdarno mette a disposizione della Società per gli allenamenti e le gare il Palazzetto comunale di via Genova. Il gruppo cresce, gli atleti sono una cinquantina e si allenano quattro volte alla settimana.
Dal 1978 al 1988 arrivano tantissimi risultati tra singoli, doppi e squadra: 16 titoli nazionali, convocazioni in nazionale giovanile e anche convocazioni nella nazionale assoluta. Andrea Bongini, Andrea Del Tomba, Alessandro Nannoni e Lorenzo Nannoni sono stati tutti convocati nelle Nazionali giovanili e hanno ottenuto risultati internazionali. In particolare Lorenzo Nannoni, che ha fatto anche parte, fin da giovane, della Nazionale assoluta. Quest’ultimo è stato il più vincente anche in ambito tricolore, con 34 titoli dalle categorie giovanili all’assoluto. Tante sono state le vittorie e le buone prestazioni ottenute dalla Società. Una delle ultime medaglie è stato il bronzo a squadre Ragazzi del 2018, comquistato ai Campionati Italiani Giovanili per merito di Emilio Brandini, Niccolò Graziani e Gioele Nale.
Ecco l’elenco dei giovani che hanno dato lustro alla Società:
SETTORE MASCHILE
LORENZO NANNONI
ANDREA BONGINI
ALESSANDRO NANNONI
ANDREA DEL TOMBA
FILIPPO SETTI
FRANCESCO DEVENTI
SETTORE FEMMINILE
GIULIA BENUCCI
SARA IACOPOZZI
ELISA CARDINALI
ALESSANDRA PECORARI
GEMMA DONATI
CHIARA ULIVELLI
Altri nomi da ricordare (ma ce ne sarebbero molti altri): ENZO CHIOSI, VITO TREFOLONI, ROBERTO BADIALI, GABRIELE DEVENTI,IRENE CALOSCI, CLAUDIA FRESCHI, ROBERTO REGNANTI, SIMONE FANZI,CARLO GIARDINI, PAGLIAZZI STEFANO, FRANCESCO BAGNOLESI, SIMONEDEVENTI, IVANO REGNANTI, TOMMASO FAILLI, SAMUELE NARDI, NICCOLO’ GRAZIANI, GIOELE NALE, EMILIO BRANDINI…
Una storia d’altri tempi
Maggio 1978,
siamo a Monza. Due bambini, compagni di squadra, stanno per scendere in campo, sono Filippo Setti e Lorenzo Nannoni.
“Se vincete vi porto a mangiare la pizza!” – Alle parole del tecnico Vivaldo Nannoni, padre di Lorenzo, iniziano a giocare con gran Iena, riversano sulla pallina un’attenzione ed un’energia tali che per gli avversari non c’è scampo. Portano a San Giovanni il primo titolo italiano della storia del “Gruppo sportivo Tennistavolo Valdarno”. Questo simpatico aneddoto ci aiuta a farci un’idea di cosa vuol dire “uno sport povero”.
In questi quarant’anni di vita della società sangiovannese i contributi esterni da parte di privati sono stati veramente pochi ed il peso finanziario dell’attività sportiva è stato raccolto quasi per intero da Vivaldo Nannoni (presidente ed autentico factotum della società), confortato dalle quote mensili dei ragazzi che via, via si sono avvicendati sulla scena del panorama sportivo. Credo che ognuno porti nel cuore con piacere gli anni della propria adolescenza, cercherò di non farmi troppo male ricordando il periodo in maglia azzurra. Non giocavamo certo con il sogno di poter un giorno fare i soldi col ping-pong, tantomeno per diventare famosi, giocavamo e basta, solo per nostro puro divertimento. In via Genova, dove ora c’è una bella palestra in muratura con il campo in parquet, alla fine degli anni settanta c’era un pallone tensostatico che stava su con l’aria calda e il campo era di asfalto. Ai lati del campo c’erano le gradinate in cemento e noi ci allenavamo nel ristretto spazio che c’era nel retro di una gradinata. Così marginalmente collocati e coperti allo sguardo della gente sembrava che stessimo giocando di nascosto. Sapevamo benissimo di essere figli di uno sport minore, ma a questo noi non facevamo caso.
Arrivavamo all’allenamento già vestiti (non ricordo che ci fosse uno spogliatoio per noi) e non vedevamo l’ora di giocare, ma il tavolo bisognava guadagnarselo. In quella striscia di asfalto c’era posto solo per quattro tavoli, ma noi eravamo tanti e bisognava fare i turni. Chi arrivava prima giocava per primo ma aveva il compito di salire sui gradoni e dalla cima della gradinata, montare la lampada in un supporto di metallo, agganciarla ad un braccio di ferro che stava lungo la balaustra e farlo ruotare, in modo che la luce illuminasse il tavolo sottostante.
A questo punto potevamo montare i tavoli ma da soli era impossibile farlo, occorreva essere in due e imparavamo a collaborare. C’era una presa ben precisa per sollevarlo, lo si doveva trasportare di peso ma con cura (soltanto più tardi arrivarono i tavoli con le ruote), sorreggerlo e appoggiarlo con delicatezza per terra. Con i tavoli si doveva essere gentili per forza, non solo perché erano la fonte del nostro divertimento, ma anche perché costavano cari e non dovevamo “sbocconcellarli”. Dovevano durare il più a lungo possibile. Quando si metteva la retina, tra il tavolo e il morsetto dovevamo metterci un cartoncino. Imparavamo il rispetto per le cose altrui. A volte poteva succedere che il tavolo non spianava e allora dovevamo ingegnarci per trovare uno spessore più consistente, questa era una specie di caccia di gruppo e facevamo a gara a chi lo trovava prima. Tutto questo lo facevamo il più in fretta possibile perché prima si montava, prima si giocava. Il rito di montare e smontare i tavoli era da tutti condiviso, era un lavoro giusto e democratico che toccava a tutti senza distinzioni, un’istituzione consolidata, chiunque volesse giocare doveva montare e smontare i tavoli e la regola valeva sia per l’ultimo arrivato sia per chi faceva parte della squadra nazionale. Ciò contribuiva a farci sentire uniti. Eravamo così abituati a quei gesti che, anche se ogni tavolo aveva un suo bloccaggio particolare, dopo un po’ di tempo le mani avevano imparato e andavano da sole.
La meta era vicina ma non era ancora raggiunta: si doveva andare in uno slargo non molto distante dai tavoli a fare il riscaldamento. Finito il riscaldamento ci si precipitava a prendere le racchette. C’era l’usanza che anche chi era arrivato più tardi poteva scaldare il braccio perciò ci posizionavamo agli angoli del tavolo e scambiavamo la pallina sulla diagonale del rettangolo in modo che i tavoli bastassero per tutti. Chi imparava presto l’arte poteva giocare in campionato e questo era l’aspirazione di tutti. C’era chi lo raggiungeva in breve tempo e chi ci impiegava gli anni. Ma Vivaldo pensava a tutti.
Chi non svolgeva attività federale si preparava comunque per due appuntamenti fissi: il classico torneo interno che si svolgeva a Natale o a Pasqua e gli incontri amichevoli contro i giocatori ancora “amatori” delle società geograficamente più vicine. Quando andavamo in trasferta, per risparmiare, cercavamo di prendere una macchina sola. Ci ritrovavamo stipati come acciughe, immobili per ore, con la borsa o con il giubbotto sulle ginocchia. Quando uno “la sganciava” doveva un secondo prima aprire il finestrino. Quando sentivi un’improvvisa ventata di aria gelida in faccia voleva dire che avevi un secondo di tempo per prepararti psicologicamente all’evento e automaticamente, chi era accanto ad un altro finestrino lo doveva aprire subito anche lui. Eravamo così automatici e sincroni nell’ammainare ed issare i finestrini da far invidia ad un affiatato equipaggio velico.
Alcune trasferte sono state epiche come quella di varcare Bocca Trabaria nel mezzo di una bufera di neve, ma tornare a casa tardi faceva parte del gioco. Nell’83 la squadra maschile di serie D riuscì a qualificarsi per gli spareggi promozione dopo un emozionante campionato finito con tre squadre in testa a pari punti. Per la differenza sets arrivò seconda ed ebbe quindi il diritto di giocare lo spareggio con la prima dell’altro girone toscano. La squadra avversaria era fortissima, aveva vinto quasi tutte le partite del suo campionato 5 a 0 o 5 a 1, solo qualche volta 5 a 2 e ci stava aspettando tra le sue mura amiche. Noi eravamo certamente meno forti di loro e da questo spareggio ci aspettavamo soltanto di fare bella figura. Destin volle che nella nostra squadra giocassero due giocatori (Simone Fanzi e Ivano Regnanti) la cui racchetta era composta da due gomme dello stesso colore (il nero per la precisione). Una liscia e veloce, capace di imprimere rotazione alla pallina, l’altra lenta e puntinata che invece lo assorbiva. La cosa era in quel periodo era permessa dal regolamento ed i forti giocatori avversari, che non avevano mai visto gomme puntinate, si trovarono ben presto a mal partito tanto che cominciarono a sbagliare anche i colpi più elementari. Da qui si fa presto a dire come finì: persero i loro incontri tra ripetute ingiurie e proteste nei confronti nostri e dell’arbitro. La rabbia di dover perdere proprio la finale dopo tanti schiaccianti successi fece degenerare la situazione tanto che i nostri avversari oltre a perdere la serie C persero anche la testa. Anche il pubblico inferocito credendo di aver subito un’ingiustizia iniziò a farsi minaccioso tanto che ci ritrovammo in breve tempo asserragliati nello spogliatoio. Per fortuna arrivarono i carabinieri e misero fine una volta per tutte all’assedio.
Sono passati solo pochi decenni, ma l’aver attraversato un’epoca di così veloci cambiamenti e di repentine innovazioni fa sembrare il racconto una storia d’altri tempi. Un giorno la neve cadde anche a San Giovanni e anche per noi fu un disastro. Trovammo il “pallone” completamente afflosciato a terra, faceva impressione vedere un gigante così imponente sdraiato al suolo. Subito ci attivammo. Un gruppetto di noi riuscì a farsi largo sotto il pesante tendone di plastica e ad arrivò alla stanza dei tavoli e del resto dell’attrezzatura ricavata sotto la gradinata.Ricordo che aveva una porta fatta di truciolato. L’acqua aveva bagnato i tavoli, dovevamo cercare di asciugarli, c’era il pericolo che si imbarcassero. Uno di noi che abitava vicino andò a casa e ritornò con un asciugacapelli. Alla fine, per fortuna, i tavoli si salvarono. Per noi il “gioco” del finestrino che ho raccontato prima non era poi così difficile. Eravamo abituati ad avere solo un secondo di tempo. Un secondo era quanto ci era concesso per organizzarci e rimandare la pallina di là. Dovevamo essere reattivi, decidere e agire. La pallina poteva arrivare da un parte o dall’altra, avere una traiettoria tesa oppure più arcuata, poteva essere carica di effetto o completamente “liscia”. Quello che contava è che ce la dovevi fare…, e ce la dovevi fare da solo. Nessuno ti avrebbe aiutato, proprio come avremmo dovuto fare quando saremo diventati grandi. Come non ricordare il talentuoso Roberto Regnanti, che a causa di un grave incidente stradale dovette stare mesi e mesi senza giocare. Lui si era salvato ma tra le tante fratture c’era anche il suo polso sinistro. Pur di continuare cominciò a giocare con la mano destra e raggiunse quasi la stessa maestria di prima!
A giugno la stagione sportiva finiva ma ci si ritrovava comunque per la merenda finale. Si poteva scegliere: o pane con sopra il formaggio, oppure un pezzetto di formaggio con un pezzetto di pane. Da bere acqua fresca per tutti! Ci salutavamo felici perché sapevamo che a settembre ci saremmo ancora ritrovati. All’orizzonte c’erano di nuovo la scuola e il ping-pong, due avventure da affrontare, misteriose ma allo stesso tempo affascinanti. Quando il tempo lo permette vi può capitare d’incontrare uno a San Giovanni che pedala su una”Graziella” gialla del ’64, quello è Vivaldo, una persona che per sua generosità ha sempre investito per i ragazzi le poche risorse a sua disposizione.
Roberto Badiali